Il benessere animale per le api da miele è stato uno dei tanti argomenti trattati al RewildBee Festival (per saperne di più di questo bellissimo appuntamento annuale vai al sito www.rewildbee.com). È un argomento che mi sta molto a cuore e visto che con l’autunno il mio lavoro con le api lentamente diminuisce finalmente ho trovato il tempo per approfondirlo.
Da quando allevo le api provo a mettere in pratica degli accorgimenti per diminuire alla colonia il fastidio della mia intrusione. Durante l’ispezione agli alveari cerco di ridurre al minimo la visita cercando anche di non ucciderne qualcuna schiacciata sotto il coprifavo. Evito di portar via miele in eccesso e di solito ci riesco visto che praticamente non nutro i miei alveari. Ma il benessere animale preso dal punto di vista delle api merita un approfondimento maggiore e se mi segui cercherò di spiegarlo.
Converrai con me che non è facile discutere del tema benessere animale per le api. Per vari motivi. Il primo, e probabilmente il più importante, discende dal fatto che le api sono insetti. Quindi, seppure sociali come noi, ci sono anche molto distanti dal punto di vista filogenetico (una cosa come 500 milioni di anni!) e questo li rende imperscrutabili. Posso grossomodo capire quali sono le esigenze di un mammifero perché si comporta in maniera simile a me. Capisco meno il comportamento di una gallina o di un fagiano perché discendendo direttamente dai dinosauri li sento meno familiari, ma posso provarci. Non posso invece sapere cosa passa per la testa di un’ape se non a grandissime linee. Insomma il metodo empirico con le api ci aiuta poco, dobbiamo affidarci alle conoscenze scientifiche.
Un altro motivo fondamentale è che l’ape è un animale che, a differenza della maggior parte di quelli allevati, mostra ancora molti comportamenti naturali, come sciamare, difendersi ed accoppiarsi in maniera indipendente dalle volontà dell’apicoltore.
Partirei da questo punto perché non è affatto scontato per tutti. Lo stesso Plinio il vecchio nella sua Naturalis Historia disse che: L’ape non è un animale domestico e neppure selvatico, ma qualcosa di intermedio, una creatura capace di contrarre rapporti con l’uomo senza perdere la propria libertà; o comunque restando sempre in condizioni di riprendersela. Ma Plinio poteva contare solo sul metodo empirico e, inoltre, lo stile di vita delle api non era ancora del tutto noto. Al suo tempo vi erano una miriade di colonie di api selvatiche e un buon numero di alveari allevati ma in maniera non dissimile da quelle in natura. Gli sciami venivano messi in tronchi o ceste (o qualsiasi altro tipo di ricovero) e non subivano grosse manipolazioni. Ma le api da miele devono o no essere considerate animali domestici?
Alcuni apicoltori dicono che non esiste alcuna differenza tra un maiale, una mucca e una colonia di api. Beh, finché lo dice chi è in conflitto di interesse si può capire, ma quando lo dicono alcuni veterinari e addirittura ricercatori allora la cosa si fa più complessa e c’è bisogno di approfondire. È ad esempio il caso di Claudia Garrido e il suo interessantissimo sito beesafe.eu (https://www.bee-safe.eu/articles/bee-thoughts/one-health-applied-to-bees-honey-bee-viruses/). Le motivazioni che adducono queste persone sono:
- gli alveari allevati sono ammassati in apiari con un’alta densità di popolazione molto difficile da trovare in natura. Questo è vero.
- sono situati a poca distanza da terra mentre in natura sono ad alcuni metri di altezza. Anche questo è vero.
- gli apicoltori si adoperano per non farle sciamare e quindi il superorganismo alveare non si riproduce più in maniera naturale. Sufficientemente vero anche questo.
- Le colonie naturali vivono in ricoveri che rimangono fissi nel posto d’origine (a parte sciamatura e al limite l’abbandono) e non subiscono spostamenti anche di centinaia di chilometri per il nomadismo. E come negarlo?
Ci sarebbe da chiedersi, però, quanto di queste pratiche sia in grado di incidere nel loro DNA tanto da farle diventare non più capaci di vivere autonomamente in natura.
L’altro punto di vista, ovvero quello contrapposto per il quale sono da ritenersi in tutto e per tutto animali selvatici, ribadisce che sono niente più che animali accuditi dall’uomo. Ciò ha dei risvolti anche nel lessico di molti accademici che sempre più adoperano la locuzione “colonie gestite” e “non gestite” al posto di colonie allevate e selvatiche. Anche i cinghiali o i daini possono essere allevati. Vengono messi in un recinto e probabilmente anche alimentati, rimangono selvatici? Basta un recinto per trasformarli in animali domestici? Magari fosse così semplice, vorrebbe dire che tutti gli animali possono essere addomesticati. Ma allora sarebbe vero anche il contrario. Prendo un animale domestico e lo libero in natura, si trasforma in un animale selvatico? Non scherziamo, la questione è molto più complessa.
Ma tu che ci leggi sei abituato alla complessità e, quindi, non ti spaventi se inserisco un altro elemento di approfondimento: ammesso e non concesso che l’ape si stia incamminando verso la domesticazione, dobbiamo prendere questo avvenimento in modo fatalistico oppure dovremmo opporci? Dico questo perché l’ape non è importante in quanto produttrice di miele o di altri fantastici prodotti ma perché produce un servizio ecosistemico, l’impollinazione, di importanza capitale per l’umanità. Possiamo prendere questo problema sotto gamba?
Proviamo a fare chiarezza: cosa distingue un animale selvatico da uno domestico? Di questo argomento ci siamo già occupati in altri articoli del nostro blog(www.bioapi.it/consapevolezza/10-apis-mellifera-domestica-o-selvatica)
Lo distingue il fatto che il primo deve essere capace di alimentarsi in maniera autonoma con quello che trova in natura e l’allevatore non deve intervenire nel suo accoppiamento decidendo chi deve accoppiarsi con chi. In poche parole non deve sostituire la selezione naturale con quella artificiale. Su questo punto, l’ape ha una caratteristica che la rende difficilmente addomesticabile (non impossibile, ovviamente): si accoppia in volo. Tuttavia l’inseminazione artificiale è possibile anche se con non pochi limiti. Ad esempio la regina inseminata artificialmente non è in grado di avere delle performance produttive paragonabili alle regine che si accoppiano in volo. Questo metodo di accoppiamento artificiale viene utilizzato per avere la certezza matematica che la regina X si accoppi con i fuchi Y Z per fermare dei caratteri interessanti. Per addomesticarla del tutto sarebbe quindi necessario tenere sotto controllo il suo accoppiamento.
In che situazione siamo? Purtroppo da un po’ di anni degli apicoltori, alcuni di quelli con più alveari, si sono innamorati degli ibridi. Essi a prima vista hanno dei comportamenti che potrebbero sembrare positivi. Producono di più e si comportano in maniera non difforme tra loro. Non male avere 1.000 colonie che agiscono in maniera simile, si risparmia tantissimo in manodopera! Ma è così perché sfruttano l’eterosi e in quanto le regine utilizzate sono tutte sorelle. Hanno però un grave difetto: non sono in equilibrio con l’ambiente. Quindi non riescono a capire quando bloccare lo sviluppo. Le colonie, per questo motivo, devono essere alimentate a dismisura.
In realtà hanno un altro paio di difetti: siccome l’eterosi è effimera (dura l’attimo di una generazione) le regine ibride vanno sostituite ogni due anni circa con altre regine ibride acquistate (quindi uccise e sostituite, alla faccia del benessere animale di cui stiamo parlando)… Inoltre gli ibridi arrivano tutti da pochissimi allevatori spesso residenti in nord Europa e quindi si va incontro rapidamente ad una consanguineità piuttosto accentuata (che le api odiano più di ogni altra cosa www.bioapi.it/consapevolezza/20-scopriamo-insieme-le-strategie-di-sopravvivenza-delle-api). Gli apicoltori che in un ambiente circoscritto utilizzano ibridi o sottospecie non autoctone costringono i colleghi che non vorrebbero utilizzarli a trasformare il loro allevamento. Infatti le loro regine autoctone che si accoppiano naturalmente in volo, troveranno molto spesso sulla loro strada fuchi figli di regine ibride o non autoctone, ibridandosi a loro volta, per di più in maniera incontrollata. Ecco cosa può spingere l’ape verso la domesticazione.
Inoltre c’è anche un altro punto sul quale anche io ho una certa difficoltà a definire l’ape un animale selvatico al 100% e, quindi assolutamente indipendente dall’apicoltore: la Varroa destructor. In Europa ci sono circa 15 milioni di alveari, in Italia circa un milione e settecentomila: cosa succederebbe se, per assurdo, gli apicoltori abbandonassero l’apicoltura? Secondo uno studio di Ingemar Fries in Svezia (https://www.apidologie.org/articles/apido/pdf/2006/05/m6039.pdf), potrebbe morire il 93% degli alveari allevati. Quindi l’ape da miele in questo momento è in una situazione borderline. Se fosse abbandonata l’apicoltura, rimarrebbero in vita circa 120.000 colonie in Italia e 1.400.000 in Europa. Anche se è vero che in seguito alla catastrofe le colonie ricomincerebbero a crescere, proprio grazie alla loro prolificità, è altrettanto da considerare il fatto che l’umanità non può permettersi una simile diminuzione di insetti impollinatori tutta di un colpo. Sia perché non è preparata all’evenienza catastrofica ma anche perché ha decimato negli ultimi anni (per colpa dei pesticidi e delle pratiche agronomiche moderne - monocolture ed eliminazione delle siepi in primis) moltissimi degli altri impollinatori selvatici (osmie, bombi, megachili, xilocope, ecc.). Ciò anche per responsabilità del completo disinteresse all’argomento da parte dell’ignara opinione pubblica. Vedendolo non dal punto di vista dell’umanità ma della specie Apis mellifera (che in fondo non è poi così diverso visto che senza la seconda la prima soffrirebbe non poco), non è neppure detto che questo sia il problema maggiore. Se è pur vero che dopo la catastrofe le colonie riprenderebbero ad aumentare, lo farebbero solo dopo aver perso una incredibilmente alta diversità genetica. Abbandonandola alla sola selezione naturale, l’ape potrebbe trovarsi davanti ad un collo di bottiglia genetico molto pericoloso. Questo evento ha già interessato molti altri animali per cui conosciamo la sua pericolosità. Il ghepardo è uno di questi e la sua limitata variabilità genetica lo sta portando all’estinzione. È un problema da non sottovalutare perché non è detto che questa popolazione residua sia capace di sopravvivere ad un’altra causa avversa, tipo i cambiamenti climatici o altre parassitosi.
Abbiamo visto in dettaglio tutte le opinioni in merito al fatto se l’ape va considerata un animale selvatico o domestico. Tu avrai la tua opinione. La mia è che lo sia ancora molto ma che da una quarantina d’anni è iniziato un lento e pericoloso processo di domesticazione a partire dal momento in cui la nostra ape è venuta in contatto con la Varroa destructor che ha annientato la grande maggioranza delle colonie selvatiche o meglio, come dicono i ricercatori, non gestite. Queste erano in grado, saturando l’ambiente di prestanti fuchi che si accoppiavano con le regine degli apicoltori, di diluire di molto il lavoro di selezione spinta degli allevatori di regine. A ciò si aggiungevano anche gli sciami naturali che gli apicoltori recuperavano e facevano propri.
Ora dobbiamo rispondere all’altra domanda: quando è importante che l’ape da miele rimanga un animale selvatico? Decidiamolo assieme. Il mio pensiero è che sia molto importante e per due motivi fondamentali. Quello più cruciale è che le api non sono tanto importanti in quanto produttrici di miele ma perché essenziali per l’impollinazione. Il miele tra 100 anni potrebbe non essere più una merce interessante, magari l’umanità si orienterà tutta per la stevia, dolcificante che non apporta calorie, o si innamorerà dello sciroppo di agave, chissà. Già oggi ci sono forti contrazioni nel suo consumo. Però l’ape rimarrà sempre imprescindibile per l’impollinazione e se la spingiamo verso la domesticazione dovremo poi ingaggiare delle persone per allevarle. Non sto parlando di cose mai successe nella storia. Il baco da seta è diventato, nei millenni di allevamento, un animale domestico. A forza di selezionarlo dal punto di vista del reddito che poteva apportare all’allevatore, che quindi manualmente si occupava del suo accoppiamento, ha perso la possibilità di farlo in maniera autonoma. Quello che era un parassita del gelso, per via del suo allevamento spinto, si è trasformato in un animale domestico incapace di autonomia. Questo potrebbe succedere anche con le api se l’inseminazione strumentale prenderà il sopravvento. Per via della selezione artificiale abbiamo perso il baco da seta. Questo fatto, per fortuna nostra, non ha altre implicazioni gravi. Per l’ape le avrebbe perché è essenziale per l’impollinazione.
Un altro motivo per il quale non dovremmo auspicare la trasformazione dell’ape in un animale domestico sta nel fatto che in questo caso il miele non sarebbe più miele. Per capirlo basterebbe leggere con attenzione la definizione di miele: esso deve provenire unicamente dalla trasformazione, da parte dell’ape, di nettare e/o melata. Nel miele non ci devono essere zuccheri provenienti da altre fonti. Se l’apicoltore alimenta abbondantemente le sue api, questo potrebbe non essere più vero. Sicuramente in molti mieli mondiali vi sono già molti zuccheri provenienti dall’alimentazione artificiale ma non possono essere dichiarati fuorilegge perché gli strumenti di analisi non riescono a evidenziarli in quanto rimangono sotto la soglia di rilevabilità. Quale consumatore comprerebbe ancora il miele se la pratica dell’alimentazione delle api diventasse importante addirittura per la sopravvivenza della colonia?
Che lunga premessa per parlare di benessere animale, perché? Per due motivi: se l’ape è un animale selvatico e tale deve rimanere, il suo benessere passa per prima cosa dalla salvaguardia del suo genoma attuale. Se è un animale selvatico allora non possiamo prendere come modello il benessere degli animali domestici. Essi vivono in un’ambiente artificiale, sono alimentati con razioni studiate per la massima resa e curati al minimo problema di salute allo scopo di raggiungere il livello massimo di reddito. Gli animali selvatici devono mantenere una adeguata rusticità per affrontare e superare brillantemente un ambiente non sempre confortevole (siccità, freddo, ecc.), un’alimentazione carente (sempre per motivi climatici, ma non di rado anche per sovraffollamento), mancanze di cure sanitarie (mica daremo l’antibiotico al leone raffreddato, giusto?). Che c’azzecca questo con il benessere animale visto con l’ottica del veterinario?
Una mucca che produce il latte che dei consumatori bevono deve essere tenuta di conto in ogni sua esigenza: alimentata alla perfezione, curarata se si ammala, tenuta in un ambiente idoneo a dare il meglio di se. Se del caso le facciamo ascoltare anche le Quattro stagioni di Vivaldi. Un animale selvatico, per non spingerlo verso la domesticazione, no. Anch’esso deve essere allevato in un ambiente sano attenti che non si ammali, ma esclusivamente tramite la prevenzione. Niente medicine o alimentazione forzata perché è necessario salvaguardare la sua rusticità. L’ambiente naturale non è sempre in grado (quasi mai, sarebbe meglio dire) di garantire un’abbondante alimentazione, così come anche un ambiente di vita perfetto. Siccità e altri eventi climatici estremi, predatori e patogeni rendono difficile la vita dell’animale selvatico e così facendo, la selezione naturale favorisce la sopravvivenza del più adatto e l’evoluzione della specie. Non così per l’animale domestico sottoposto alla selezione artificiale. Questa favorisce la sopravvivenza del più adatto sì… ma solo quella di fare più reddito (e poi non sempre vero, visto che l’allevatore non riesce a prevedere tutto ciò che può capitare, ma questo è un altro discorso).
Recentemente sono stato invitato ad una riunione tra veterinari e persone che si occupano di apicoltura che aveva come intento proprio quello di stabilire norme per il benessere animale tra le api da miele secondo l’impostazione CassyFarm (https://www.izsler.it/wp-content/uploads/sites/2/2022/12/ABS1_PRC2020006-1.pdf).
ClassyFarm è un sistema integrato finalizzato alla categorizzazione dell’allevamento in base al rischio con l’intento di facilitare e migliorare la collaborazione e il dialogo tra gli allevatori e l’autorità competente (Asl, Istituti zooprofilattici, Nas e quant’altro) per elevare il livello di sicurezza e qualità dei prodotti della filiera agroalimentare. Un intento condivisibile al 100%.
Quali sono i rischi per la salute pubblica (o se vogliamo rispetto alla legislazione vigente in materia di sanità animale e qualità minima dei prodotti delle api) insiti nell’allevamento delle api? Principalmente che non finiscano nei loro prodotti i residui dei medicinali utilizzati per mantenere la Varroa sotto il limite di danno; poi che nella collocazione degli alveari l’apicoltore abbia una ragionevole certezza che non finiscano nei loro prodotti neppure i residui dovuti all’inquinamento ambientale compresi quelli dei trattamenti effettuati alle colture agricole dalle quali le api hanno ricevuto il loro cibo; infine che non sia stoccato insieme al miele parte dell’alimentazione artificiale praticata per farle stare in salute o produrre di più. Non per nulla sono i temi che più stanno a cuore al legislatore che ha studiato le norme che deve (o dovrebbe) rispettare l’apicoltore biologico.
Quindi ClassyFarm (o ClassyAlv come hanno battezzato quello per l’apicoltura) è un ambito molto ristretto in cui il benessere animale importa più per le implicazioni salutistiche che non ambientaliste (ammesso e non concesso che le due cose alla lunga possano rimanere separate). Pur conoscendo il tipo di approccio non posso negare che mi ha molto colpito il fatto che tra le prescrizioni iniziali c’era proprio quella di non discutere delle questioni genetiche. A prescindere dal tipo di animale, se selvatico o domestico, davvero ci si può disinteressare di cosa fa la selezione artificiale e le sue implicazioni sulla salute degli animali e quindi nel rischio di doverli imbottire di medicinali per farli sopravvivere? Siamo certi che disinteressarsi delle sofferenze degli animali dovute alla loro genetica, a parte le questioni etiche, tuttavia molto importanti, poi alla lunga ciò non vada ad avere implicazioni anche sulla qualità del prodotto finito?
Quando si parla di questo come non pensare al pollo Broiler? Malgrado si possa disquisire per ore anche di altri tipi di animali studiati appositamente per il modello economico attuale che avvantaggia non solo il produttore ma, anzi, tutta la filiera, dall’industria mangimistica fino alla grande distribuzione, egli ne è l’emblema. Il pollo Broiler è un incrocio tra razze che (anche lui a causa dell’eterosi) ha un velocissimo accrescimento in modo particolare del petto e delle cosce che sono le parti più facilmente vendibili del pollo. Questo, però, crea notevoli sofferenze all’animale più per le sue caratteristiche genetiche, che per le modalità di allevamento. Insomma seppure il concetto di benessere animale dà per assodato che nell’allevare gli animali sia necessario mettere a punto delle “misure adeguate per garantire il benessere dei propri animali e affinché non vengano loro provocati dolore, sofferenze o lesioni inutili” come esposto nella sua definizione, come comportarsi quando sono le caratteristiche genetiche dell’animale a rendere impossibile il garantirgli un’esistenza dignitosa e priva di sofferenza e dolore? Come coniugare l’allevare animali programmati per soffrire e le norme sul benessere animale? Esclusivamente facendo finta di nulla?
Un’altra cosa importante da valutare è che sempre più spesso la selezione spinta porta ad allevare animali con malattie genetiche. Una vacca che produce giornalmente 30 litri di latte quando al vitello 10 litri sarebbero più che sufficienti, non è forse una vacca con una malattia che la selezione naturale cancellerebbe? Una colonia di api che produce molta più pappa reale perché le nutrici hanno il doppio e più delle ghiandole ipofaringee e mandibolari, non è forse un’ape malata? Se un animale con una tara genetica è chiuso in una stalla fa un danno ma circoscritto. Per un animale che si accoppia in volo, invece, il danno è maggiore in quanto la tara genetica si può più facilmente diffondere.
È quindi impossibile dare delle norme per allevare le api avendo cura del loro massimo benessere?
Per quanto detto, soprattutto nella premessa, non sarà facile. Mettiamo per un attimo la lente di ingrandimento sul vecchio modello di allevamento delle api, quello in voga fino alla metà del 1800. Anche se non è strettamente vero che in passato per ottenere il raccolto le colonie dovessero sempre essere uccise, spesso succedeva perché la cera era un prodotto importante almeno quanto il miele. Dal punto di vista del benessere animale, almeno nella visione attuale, potremmo dire che è quanto di peggio. E, infatti, quando nella prima metà del secolo scorso le associazioni degli apicoltori spingevano affinché i loro associati cambiassero metodo di allevamento, puntavano su due argomenti: il metodo moderno è quello razionale (il vecchio quindi irrazionale) e uccidere le api è roba da primitivi. È davvero così?
Questa è la tipica situazione che non possiamo vedere in bianco/nero, dobbiamo provare a scorgere anche i grigi. L’apicidio è sempre stato possibile perché le colonie di api, in una situazione di salute (quindi non quella che possiamo osservare oggigiorno che è solo il pallido ritratto di ciò che era soltanto quarant’anni fa) producono una quantità eccessiva di sciami. Come sapete benissimo, voi che leggete i nostri articoli nel blog (www.bioapi.it/consapevolezza/20-scopriamo-insieme-le-strategie-di-sopravvivenza-delle-api) la strategia di sopravvivenza delle api è l’abbondanza e le colonie la mettono in pratica sempre, dalla produzione di miele (così che lo possiamo raccogliere senza metterle in pericolo di morire di fame) alla covata che le fa allevare più operaie del necessario (e l’apicoltore può così produrre nuclei artificiali senza intaccare la produzione), dal numero delle celle reali prima della sciamatura (oltre venti malgrado ne usciranno vive al massimo 3-4), alla quantità di fuchi per colonia (circa 5000 malgrado solo qualche decina di loro parteciperà all’accoppiamento delle regine vergini del territorio). Non sfugge la produzione di sciami.
In un territorio sano, con una popolazione di colonie di api in equilibrio e sane anch’esse, ogni anno si liberano solo pochissimi ricoveri naturali ovvero tronchi d’albero o anfratti nelle rocce. Fatto centro un alveare, in un’area compresa nel suo raggio di azione (come sappiamo 3 chilometri), secondo i dati di Thomas Seeley (una colonia ogni 800 metri - www.naturalbeekeepingtrust.org/darwinian-beekeeping), convivono un centinaio di colonie. Ogni colonia non sottoposta ad allevamento produce almeno 2-3 sciami l’anno e ogni anno almeno i 75% di loro sciama. Se poniamo realisticamente al 4% la mortalità naturale delle colonie in assenza di malattie (si rendono liberi 4 ricoveri ogni anno) dove vanno a finire i circa 200 sciami prodotti dalle colonie che abitano un territorio? Cosa succede a quelli che non trovano posto? Si disperdono… Ecco che l’apicidio può essere visto sotto un altro aspetto. Non è un massacro, perché comunque questo già avviene per via della strategia di sopravvivenza delle api e non produce alcun danno al DNA delle api (o molto limitato) al contrario di quello che succede nel modello di apicoltura cosiddetta razionale che sta annientando le sottospecie autoctone per via all’allevamento di ibridi e sottospecie non autoctone.
Non voglio ovviamente spingere gli apicoltori a tornare indietro, tutt’altro. Sono convinto che per il benessere delle api esse si possano allevare nei medesimi alveari in cui le alleviamo ora e senza ucciderle, vorrei solo fare chiarezza.
Quindi ritornando all’apicidio considerato dal punto di vista del benessere animale, se l’animale fosse domestico sarebbe senz’altro da stigmatizzare: che senso ha ucciderle se il prodotto non è la loro carne?
Se invece lo consideriamo dal punto di vista dell’animale selvatico le cose si complicano.
Vorrei aggiungere solo un altro argomento, senza approfondirlo troppo per non perdere il filo del discorso. Come sapete sono un apicoltore ma non posso non constatare che è proprio la categoria alla quale faccio parte, al contrario di quando immagina l’opinione pubblica, il peggior nemico delle api, quella che ha creato (involontariamente, ma poco importa per il risultato) i danni più gravi dal punto di vista sia economico che ambientale. L’opinione pubblica e anche molti apicoltori pensano che ad oggi siano i pesticidi il più grave problema per le api da miele ed anche quello che crea più danni economici. Sicuramente è un grave problema che dobbiamo risolvere quanto prima, ma non è così. È la Varroa destructor il problema principale per l’ape e l’apicoltura e si è diffusa in quasi tutto il mondo per via degli scambi di api tra apicoltori da un continente all’altro. Malgrado il risultato catastrofico, essi hanno continuato a scambiarsi materiale vivo e così facendo hanno diffuso una miriade di nuove altre malattie, dal Nosema ceranae ai Virus per non parlare dell’Aethina tumida. Forse una delle prime decisioni da prendere per quanto riguarda il benessere animale tra le api sarebbe quello di limitare al massimo lo spostamento degli alveari.
Credo sia quindi evidente che uno dei punti fondamentali da prendere in considerazione quando si parla di benessere animale tra le api sia quello di cercare di mantenerlo un animale selvatico.
Ecco che per riuscire in questo sono di importanza fondamentale tutti i progetti tipo il Resilient Bee Project che hanno come finalità quella studiare i motivi per i quali alcune colonie riescono a trovare un buon compromesso nel rapporto ospite/parassita e riescono a sopravvivere. Per saperne di più vai al sito www.resilientbee.com
Per parlare di benessere animale nel caso delle api bisognerebbe conoscere ciò che questo meraviglioso insetto ama sopra ogni altra cosa. Come già detto, non è facile immaginarlo. Di una cosa, però, possiamo dirci certi perché lo persegue con tutte le sue forze.
L’ape è uno dei pochissimi animali (forse addirittura l’unico) la cui femmina feconda (la regina) si accoppia con una grande quantità di maschi (i fuchi): di media 15 ma può arrivare anche a superare i 20. Si accoppia in volo, lontano dall’alveare, quindi in una situazione di grande pericolo perché potrebbe essere facile preda di un insettivoro, allora vuol dire che a questo ci tiene assai. Probabilmente tiene al fatto che l’alveare sia composto da operaie che abbiano molta variabilità genetica. L’ape ama la variabilità genetica.
Quindi nella mia personale lista sul benessere animale per la specie ape ci devono essere dei riferimenti a tutte quelle pratiche che possono in qualche modo diminuire la loro variabilità genetica.
Due le abbiamo già discusse in precedenza: l’utilizzo di ibridi commerciali e di sottospecie non autoctone che tra l’altro costringe all’uccisione ogni due anni di tutte le regine dei propri apiari. È autointuitivo che sopprimere la regina è contrario al suo benessere, non credo ci sia altro da aggiungere. Tuttavia la pratica della sistematica soppressione della regina, piuttosto diffusa in apicoltura e anzi consigliata da molti manuali (perché la regina giovane produce più covata e quindi più api e quindi più miele e quindi aumenta il reddito) è anche nociva alla variabilità genetica della specie Apis mellifera. Se si sostituisce una regina solo perché è a fine carriera, si tolgono deliberatamente dei caratteri che potrebbero essere, invece, di grande utilità per la specie.
La soppressione della regina è auspicabile (e, anzi, avvicina questo atto a ciò che farebbe la selezione naturale) ogni qual volta si presenta una malattia incurabile. È auspicabile anche qualora l’alveare fosse particolarmente aggressivo perché ne va dell’incolumità sia dell’apicoltore sia di chi vi si trova vicino (pensa ad uno sciame che potrebbe finire in una finestra di un casolare…). Spesso questa colonia è figlia di un incrocio ibrido.
Anche la soppressione della covata maschile, da molti consigliata per il controllo della Varroa destructor in quanto la preferisce, ha una doppia valenza nel benessere animale: non sarà un apicidio ma ci va molto vicino ed elimina una buona variabilità genetica. Tra l’altro proprio quella dei fuchi di cui solo i più prestanti possono raggiungere la regina in volo per accoppiarsi (20 su oltre 50.000 che partecipano al volo nunziale, dei veri campioni olimpionici!) spingendo con questa estrema selezione naturale gli alveari del territorio ad adattarsi velocemente alle condizioni sfavorevoli patologiche o climatiche che siano.
Un’altra pratica apistica che ha tutta l’aria di essere contraria al benessere animale è il taglio dell’ala della regina. Anni fa in un convegno tra apicoltori biologici a livello internazionale (il taglio dell’ala è vietato in apicoltura biologica) ho sentito tuonare il presidente di una nota associazione di apicoltori di livello nazionale, anche lui con azienda certificata bio, contro il divieto vigente nelle norme che regolano questo modello di apicoltura. A suo dire il divieto è folle perché nelle ali non ci sono terminazioni nervose e, quindi, zac! Sicuro che le api non hanno terminazioni nervose nell’ala? A vederle così membranose e ben scolpite da venature non si direbbe, ma poi chissà dove lo avrà letto…
Avere nei propri alveari un’ape regina con le ali non funzionanti torna utile al momento della sciamatura. La regina pensa di averle sane e quindi mentre è in atto la sciamatura esce dall’alveare come se nulla fosse, ma cade in terra. Le api, a questo punto invece di fare lo sciame su un ramo di un albero nelle vicinanze o altro supporto adatto allo scopo, segue la regina è compone lo sciame proprio sotto l’arnia di partenza. L’apicoltore, a questo punto, se ne accorge e con molta più probabilità riesce a recuperarlo. Potrebbe anche capitare che le api dello sciame abbandonino la regina al suo destino facendo ritorno nell’alveare originario tentando una nuova sortita nel momento dello sfarfallamento della prima regina vergine. Ciò darà, però, il tempo all’apicoltore di accorgersene e distruggere tutte le celle reali a parte una e il gioco è fatto. Scampato pericolo, l’alveare non sciamerà.
Il presidente dice che la regina non soffre se le si tagli l’ala. Sicuro? Beh, mica si dimena mentre gliela stai tagliando e neppure urla di dolore. C’è un altro buon motivo però per non tagliare l’ala alla regina e lo dice la definizione di benessere animale. Nel suo complesso esso non include solo la salute e il benessere fisico dell'animale ma anche quello psicologico e la capacità di esprimere i suoi comportamenti naturali. Andrebbe quindi dibattuta, allora, anche la figura barbina a cui la si sottopone davanti alle proprie suddite, non capace neppure di raggiungere il ramo di un albero a pochi metri di distanza. Poi l’istigazione ad ucciderla, aspettando la nuova regina. Ma so già cosa direbbero gli apicoltori industrializzati… mo’ ci tocca pagare alle api anche lo psicologo…
E invece, come valutare l’uccisione delle operaie durante la visita che l’apicoltore compie con una certa frequenza per valutare che nell’alveare sia tutto in ordine? Quando richiude il coprifavo sicuramente qualche ape ne rimane schiacciata. La sua bravura sta nel ridurre al minimo questo scempio. Dal punto di vista della specie e delle sue esigenze, ciò non provoca scompensi. Le operaie sono sterili e quindi non entrano del gioco della variabilità genetica e sono strutturate dalla natura per morire con una certa facilità. In estate vivono solo una quarantina di giorni e per difendere l’alveare si immolano con una certa disinvoltura. Quando pungono quello che immaginano essere un nemico muoiono perché il pungiglione e le viscere rimangono inferte nella cute del mal capitato. Sicuramente questo elemento non rientra nel benessere genetico delle api, ma per fortuna nostra non possiamo chiedergli un parere… Ogni allevamento è un’imposizione per l’animale allevato ed è impossibile non procurare loro un’offesa o addirittura un affronto. Le leggi di natura possono essere atroci ma non possiamo prendere ciò a pretesto per fare come ci pare, ma neppure morire di stenti per non far del male a nessun essere vivente. La via d’uscita potrebbe essere quella di conoscere in modo approfondito la materia cercando di fare meno danni possibile con un approccio amichevole verso la natura.
Vediamo quindi in estrema sintesi quali pratiche potrebbero essere amichevoli con le api:
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