Le malattie delle api: un argomento dall’alto tasso ansiogeno. Alzi la mano chi ha dormito la notte malgrado ciò che aveva visto nei suoi alveari aveva tanto l’aria di essere una delle temibili malattie delle api. Non per nulla è anche l’argomento trattato ai nostri corsi di apicoltura con il più alto tasso ansiogeno, uno di quelli che ti fa repentinamente passare la voglia di fare il mestiere dell’apicoltore. Tu non demordere leggimi fino alla fine perché, in fondo, le api sono uno degli animali più resiliente che conosca e te lo dimostrerò. Ovviamente per avere delle colonie in salute, anche tu che le allevi devi fare la tua parte.
L’alveare è un superorganismo composto di decine di migliaia di individui strettamente imparentati. In un ambiente molto ristretto vi è un’altissima densità di popolazione. Inoltre, questi individui hanno contatti continui con l’esterno: i fiori dove le api raccolgono nettare e polline, le fonti d’acqua, le gemme dove sono estratte le resine della propoli e quant’altro. Pare improbabile che non vi si trovino dei microrganismi lasciati lì da api di altre colonie. Microrganismi che una volta entrati nell’alveare possono diffondersi grazie ai continui contatti e relazioni di scambio di cibo tra tutti i componenti la colonia. Se questo non bastasse, la temperatura all’interno dell’alveare, a maggior ragione in prossimità della covata, è costante e ad un livello tale che favorisce la proliferazione dei microbi. L’umidità al suo interno è elevata ed anche questa è una ragione per la quale potrebbero facilmente moltiplicarsi. Perfino gli alimenti che vi si trovano immagazzinati, di grandissima qualità e vi valore nutrizionale eccezionale, fanno pensare all’alveare come l’eden dei patogeni. Per concludere, tutte le conoscenze a nostra disposizione ci inducono a presagire un’altissima probabilità che la colonia vada incontro a delle malattie.
Eppure non è così e, a ben vedere, a noi apicoltori non capita tutti i giorni di osservare una colonia malata. Evidentemente il superorganismo alveare deve avere dei sistemi di controllo sulle malattie.
Qualche ricercatore, soprattutto nel passato, ha supposto che siano le api nella loro individualità a formare una barriera nei confronti dei microrganismi. Ma i recenti studi sul genoma dell’ape da miele hanno mostrato come essa possegga un minor numero di geni coinvolti nella risposta immunitaria rispetto alle specie solitarie (tipo Osmie, Xilocope e Megachili). Ciò vuol dire che fanno affidamento anche ad altri meccanismi che devono giocoforza coinvolgere un tipo di difesa sociale e non solo individuale.
Possiamo presumere che la prima linea di difesa alle malattie sia effettivamente costituita dalle barriere meccaniche. L’esoscheletro, che funge da corazza e al cui esterno vi sono cere e molecole derivanti dal veleno e l’epitelio intestinale che insieme prevengono l’intrusione e l’adesione dei patogeni. Una seconda barriera la possiamo scorgere negli inibitori fisiologici derivanti dalle secrezioni delle loro ghiandole, capaci di produrre delle sostanze antibiotiche. Una terza barriera è costituita dai simbionti intestinali che sono in grado di inibire lo sviluppo di molti dei patogeni delle api. Proprio come capita anche a noi.
Le difese a livello sociale possono essere divise tra quelle preventive e quelle curative. Ma, a questo punto, una premessa è d’obbligo. Se è pur vero che la società delle api è composta da individui simili dal punto di vista genetico, visto che sono tutte sorelle, va sottolineato che la selezione naturale ha indirizzato l’ape da miele (probabilmente come mai in nessun altro animale) verso il massimo della diversità possibile. La regina, durante il volo nuziale, si accoppia con una media di 15 fuchi. Quindi sono sì sorelle, ma di una moltitudine di padri (si parla infatti di poliandria). Padri che difficilmente sono parenti della regina vergine o tra loro visto che, appunto, l’accoppiamento avviene in volo (e non nel chiuso dell’alveare dove ci sono una miriade di fratelli) e che per giungere nel luogo dell’accoppiamento possono compiere lunghissimi voli, anche di decine di chilometri. È stato scientificamente provato che regine che si sono accoppiate con più fuchi sono anche più resistenti alle patologie (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/16518641/). Voglio ricordare che la pratica di allevare colonie con regine ibride (che per far rimanere l’alveare performante devono essere sostituite regolarmente) e sottospecie non autoctone (che si ibridano al primo volo nuziale e quindi seguono lo stesso destino) concorrono a ridurre la diversità genetica delle api da miele. Capisco che sia un argomento controintuitivo perché se ci si ferma in superficie (mai essere superficiali quando si parla di un insetto che ci assicura il cibo con il suo servizio di impollinazione!) l’apicoltore potrebbe pensare che se introduce una sottospecie aliena o un ibrido in un territorio, questo aumenterà la variabilità genetica. Effettivamente è vero ma solo nel momento della prima introduzione. Le regine ibride o di sottospecie aliene devono essere, giocoforza, sostituite ogni paio di anni perché le generazioni future perdono il vigore ibrido e quindi le performance - motivo per le quali sono state introdotte - tracollano. Ecco perché la variabilità genetica in realtà non aumenta e anzi, anch’essa tracolla in poche generazioni. Queste regine sono, infatti, per lo più acquistate da uno o pochi allevatori e quindi sono fortemente imparentate. Un apicoltore può avere anche 1.000 alveari ma se sono tutti imparentati, è come ne avesse una ventina. Inoltre è un aumento inutile di variabilità perché è molto importante che questa sia mantenuta all’interno della sottospecie. Contemporaneamente è importante salvaguardare la sottospecie perché la variabilità si conservi nel futuro. Una volta ho ascoltato, ad una riunione tra allevatori di api regine, Kaspar Bienefield, uno dei maggiori genetisti esperti di api al mondo, parlare di un fatto successo in Egitto. In questo paese è autoctona una sottospecie (Apis mellifera lamarckii) che è meno produttiva rispetto ad alcune sottospecie europee ed anche molto più aggressiva. Allora alcuni apicoltori egiziani hanno deciso di provare ad allevare l’Apis mellifera carnica, molto più produttiva e, soprattutto, tranquilla. Il risultato è stato quello che il calabrone locale (Vespa orientalis) ha causato un aumento delle perdite degli alveari con regina carnica rispetto a quelli con regina autoctona, molto più capaci di difendersi dal calabrone autoctono. Gli ibridi tra le due sottospecie non davano sempre segni di mantenere il comportamento difensivo della sottospecie locale. Quando si trasferiscono in un territorio sottospecie non autoctone, forte è il rischio di perdere i geni dell’adattamento all’ambiente anche nelle sottospecie locali.
Il modello di apicoltura che prevede l’uso di ibridi e sottospecie non autoctone aumentando drammaticamente la consanguineità vanifica i vantaggi della poliandria. Questo perché i fuchi sono aploidi quindi possiedono solo parte del DNA della madre e quindi i fuchi fratelli o molto imparentati diventano simili tra loro dal punto di vista genetico, una sorta di cloni. E allora in un ambiente così composto la regina vergine pur accoppiandosi sempre con molti maschi è come se lo facesse con pochissimi dato che i fuchi fortemente imparentati hanno spermatozoi quasi identici.
Una piccola osservazione prima di continuare. A livello di percezione abbiamo la sensazione che la malattia si instauri con la presenza del patogeno (che ovviamente è vero) e l’assenza di malattia con la sua mancanza. È soprattutto quest’ultima frase ad essere sbagliata. La malattia si instaura quando la quantità di parassiti supera una certa soglia che è variabile da individuo ad individuo ovvero da colonia a colonia. La variabilità dipende da molti fattori ambientali come ad esempio quantità di raccolto (è noto che le api quando trovano abbondante cibo non manifestano malattie) ma anche dalla genetica della colonia. Ovvero ogni colonia ha una suscettibilità diversa in base al suo genoma. Ecco perché, molto spesso, consigliamo di sopprimere la colonia malata (soprattutto quando la cura difficilmente avrebbe successo) o almeno di sostituire la regina. Una colonia è apparentemente sana perché stanno funzionando tutte le barriere, sociali e meccaniche che l’alveare può mettere in campo ed anche ambientali. Poi può esplodere magari perché le bottinatirci o più facilmente l’apicoltore, introducono dei parassiti che si vanno ad aggiungere a quelli già presenti, oppure per mancanza di raccolto.
Tra le difese preventive si possono annoverare: la raccolta della propoli che utilizzano come disinfettante all’interno dell’arnia; la difesa della porcina di volo ad opera delle api guardiane che fungono da primo filtro all’entrata scacciando intrusi e api malate; il confinamento delle bottinatrici, le api della colonia più a rischio di infettarsi all’esterno, in zone periferiche dei favi e la sciamatura. Inoltre, le api cono capaci, attraverso dei loro enzimi, come la perossidasi, di produrre acido gluconico e acqua ossigenata che le aiuta nel prevenire le infezioni.
Tra le difese ai parassiti condotte dalle api nel loro insieme va annoverato anche l’istinto igienico. In presenza di stadi di covata infetti (larve o pupe) le api di casa sono capaci di riconoscerle e di allontanarle velocemente dall’alveare prima che l’infezione si propaghi sviluppando la malattia conclamata. Alcuni ricercatori hanno così osservato che l’estrema sensibilità ad un parassita da parte di alcuni stadi della covata, poteva diventare un sistema di difesa sociale in quanto più velocemente si ammalano le larve, più velocemente le api di casa riescono ad “accorgersi” della presenza del patogeno, estraendole dalla celletta è portandole all’esterno. Questo è ad esempio uno dei modi di agire che rende l’Apis cerana molto tollerante alla Varroa destructor. Incredibile come una condotta di apparente fragilità si trasformi in forza della colonia. Ciò dimostra che con le api da miele non possiamo comportarci come se fossimo di fronte ad un mammifero e soprattutto che l’esperienza dell’apicoltore, anche dopo quarant’anni di lavoro con le api, come nel mio caso, a volte non basta per fare le scelte giuste. Modestia e consapevolezza non facilmente riscontrabile tra tutti gli apicoltori. Purtroppo!
A parte la Varroa destructor non esiste nessuna patologia che è possibile curare con l’uso di medicinali. Non esiste una sola medicina autorizzata per l’uso in apicoltura, se si eccettua, appunto, quelle per il controllo dell’acaro.
Questo è molto importante perché l’ape da miele è un animale selvatico e tale deve rimanere. Nella gestione delle malattie, quindi, massima attenzione deve essere data alla selezione naturale. Affinché le malattie non si propaghino in maniera incontrollata, l’apicoltore può far affidamento esclusivamente alla prevenzione. Per metterla in atto in maniera consapevole ed efficace c’è bisogno di avere alcune conoscenze.
Come regola generale è sempre meglio allevare api autoctone perché sono in equilibrio con l’ambiente circostante. È importante stimolare l’autosostituzione delle regine piuttosto che la loro frequente sostituzione. Solo così, infatti, è possibile mantenere il massimo della variabilità genetica. Le regine vanno sostituite, però, quando danno prova di essere sensibili alle malattie. È questo è il consiglio che dò sempre agli apicoltori quando rinvengono casi gravi di Covata calcificata (Ascosphaera apis). Alcune malattie, come Peste americana e a volte quella europea (qualora si propaghi nella colonia molto velocemente) non rispondono a nessun tipo di cura (come la messa a sciame, il blocco della covata o il cambio della regina) e bisogna essere più drastici e sopprimere l’alveare nel minor tempo possibile. Questo sistema, che si avvicina molto a quello che succederebbe in natura, anzi lo anticipa, aumenta la rusticità delle colonie della propria azienda e, con il tempo, l’incidenza delle malattie sarà sempre più bassa.
Si parla di modalità di trasmissione di un patogeno in senso orizzontale quando questo si propaga tra individui, non necessariamente appartenenti alla stessa colonia, della stessa generazione. È la modalità di trasmissione più grave per la salute degli alveari - e quindi è quella a cui devi mostrare maggiore attenzione - perché le colonie sane possono essere le più esposte (grazie alla loro maggiore attività) e ammalarsi in brevissimo tempo senza possibilità di poter intervenire. Si ha, ad esempio, nel caso di deriva, quando le api di una colonia, sbagliando traiettoria, entrano in una colonia adiacente. Una delle malattie la cui propagazione avviene con estrema facilità, aiutata dalla deriva, è la Peste europea, dovuta al batterio Melissococcus plutonius. In natura la deriva non è un problema per le colonie in quanto l’apiario, quindi la collocazione di più alveari in una stessa postazione, nasce da una necessità dell’apicoltore. La selezione naturale non è intervenuta su questo aspetto perché, considerati i lunghissimi tempi necessari, è di recente introduzione. Una delle possibili soluzioni potrebbe essere quella di distanziare il più possibile le colonie all’interno dell’apiario, possibilmente più di 50/60 cm e di eliminare velocemente (a poche ore dal rinvenimento) le colonie infette.
Un ben maggiore pericolo di trasmissione orizzontale lo si ha con il saccheggio: una colonia malata e indebolita viene presa d’assalto da altre colonie per portarle via le scorte. Contemporaneamente, però, le bottinatrici si infettano. Il saccheggio avviene maggiormente all’interno di un chilometro di raggio fatto centro il proprio apiario e con maggiore facilità più le colonie moribonde sono vicine. In questo caso è più difficile intervenire perché sovente il saccheggio avviene tra alveari di diversi apicoltori. Per quanto riguarda le responsabilità dell’apicoltore è bene ricordare che gli alveari malati che non possono essere curati con tecniche apistiche (come detto la messa a sciame, il blocco della covata o la sostituzione della regina, eccetera) o troppo indeboliti devono essere soppressi nel più breve tempo possibile. È quindi importante avere dei buoni rapporti di vicinato con gli apicoltori locali partecipando e sollecitando la partecipazione alle giornate di aggiornamento associative.
Un altro grave pericolo per la trasmissione orizzontale dei patogeni, probabilmente quello che produce più danni, sono le tecniche apistiche, soprattutto lo scambio di favi di covata, ma in generale anche favi con miele e favi vecchi vuoti. Alcuni batteri, come il responsabile della Peste americana, il Paenibacillus larvae, sono sporigeni e le spore sono resistenti sia alle alte temperature che agli agenti chimici e quindi sono un formidabile veicolo di trasmissione delle malattie. Altri batteri, come il già citato Melissococcus plutonius, pur non essendo sporigeni, riescono a sopravvivere a lungo tra le esuvie che le larve lasciano nelle cellette durante le loro mute. Mantenere il massimo di igiene, sia in apiario che in laboratorio ed evitare il più possibile lo scambio di materiale organico aiuta la prevenzione da queste malattie. Anche le arnie vuote, se hanno contenuto colonie malate, possono essere un veicolo di contagio.
Oltre alla modalità di trasmissione dei patogeni in senso orizzontale va considerata anche quella verticale. Si ha quando l’agente patogeno viene trasmesso da una generazione di api a un’altra (accoppiamento nel volo nuziale, sciamatura, autosostituzione della regina, ecc.).
Pur essendo anch’esso un mezzo di diffusione da tenere in considerazione, è sicuramente meno grave ed è quello che può portare all’instaurarsi di un rapporto di equilibrio ospite parassita. Infatti solo le colonie che riescono a portare il patogeno nelle seguenti generazioni possono instaurare con esso una certa resistenza o tolleranza. Naturalmente nel rapporto di coesistenza ospite-parassita anche il parassita mette in atto degli accorgimenti per ridurre la sua virulenza per non portare a morte l’ospite. E di conseguenza anche se stesso.
Alcuni ricercatori (www.pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/16782011/) hanno dimostrato che gli apoidei a seguito di una precedente esposizione a un patogeno hanno un vantaggio in termini di protezione a lungo termine contro lo stesso patogeno. Questo potrebbe voler dire che il sistema immunitario degli apoidei è funzionalmente capace di una protezione indotta specifica e duratura simile alle varie specie di vertebrati.
La sciamatura, che gli apicoltori vedono come momento negativo per il loro lavoro in quanto riduce il loro reddito per via della conseguente perdita di produzione (e a volte senza neppure riuscire a catturare lo sciame che non di rado si disperde nell’ambiente) è uno dei più formidabili sistemi che le api hanno di controllare le malattie. Questo è associato, tra l’altro, all’estrema selettività dei patogeni delle api ad uno degli stadi in cui si trovano: covata o api adulte.
La sciamatura porta, sia nello sciame che nella colonia madre ad una interruzione della covata e questo diminuisce drasticamente sia la carica microbica (batteri, funghi, virus) sia i parassiti quali la varroa. Senza contare che è possibile fare un trattamento allo sciame nei primi 4/5 giorni dall’insediamento e alla colonia madre dopo 24 giorni dalla sciamatura con un prodotto a base di acido ossalico e ottenere una ulteriore riduzione del 90% degli acari. In assenza dei fenomeni di saccheggio o di deriva, si può dire che non sarebbe necessario alcun altro trattamento fino alla stagione successiva.
Come abbiamo detto, le malattie sono suddivise in malattie della covata e malattie degli adulti. Nel primo gruppo i parassiti che producono più danni sono: la Peste americana, la Peste europea e la covata calcificata. Tra queste possiamo inserire anche l’acaro Varroa che compie il suo ciclo di sviluppo proprio nelle cellette di covata, anche se i suoi danni li produce ad entrambe gli stadi in quanto si nutre a scapito dei corpi grassi delle api adulte. Tra le malattie degli adulti, possiamo annoverare la nosemiasi (Nosema ceranae e N. apis) inoltre alcuni virus tra i quali il Virus delle ali deformi (DWV) e il Virus della paralisi cronica (CBPV).
Al termine di questa parte generale alla quale poi seguiranno altri articoli di approfondimento sulle singole malattie, è d’obbligo parlare delle malattie non parassitarie che sono molto subdole perché non facilmente diagnosticabili. Normalmente sono degli stati di stress in cui si trovano le colonie di api per motivi ambientali che abbassano le loro difese immunitarie e a seguito delle quali i parassiti hanno più gioco nel moltiplicarsi. Parliamo ad esempio di carenze nutrizionali (non sono rari i casi in cui le api non trovano sufficienti fonti pollinifere in periodi critici quali la fine dell’estate e l’autunno) oppure di nettari ma più frequentemente melate di difficile digestione oppure di avvelenamenti a causa dei pesticidi. I cambiamenti climatici a cui assistiamo negli ultimi anni stanno anch’essi mettendo a dura prova gli alveari che per eventi estremi sempre più frequenti (siccità prolungata, gelate tardive, piogge che durano giorni e giorni, grandinate, ecc.) non riescono per lungo tempo a procacciarsi il cibo e diventano prede dei parassiti.
È quindi compito dell’apicoltore valutare bene dove posizionare i propri apiari (carico di alveari, eccessiva presenza di agricoltura intensiva, tipo di bottino che le api si trovano a raccogliere, zone troppo ventose, umide o fredde, ecc.) e di intervenire precocemente quando le condizioni di vita degli alveari sono messe a repentaglio.
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