Se qualcuno mi domandasse qual è l’argomento più importante da conoscere prima di accingersi ad allevare questi fantastici insetti non avrei dubbi: il controllo della varroa destructor in apicoltura biologica. Se la conosci bene sai cosa fare e non fare e non avrai problemi nella sua gestione.
Se ti affidi al caso o alle mille chiacchiere che girano attorno a questo argomento, all’uscita dall’inverno conterai sempre un sacco di alveari morti. Da quando è arrivato questo parassita, quasi ad ogni stagione esce fuori la novità che finalmente porrà fine ai problemi: una volta è la felce maschio, un’altra la Tussilago farfara, un’altra ancora è l’acido citrico, il distanziamento tra i favi o il modello di arnia. Ultimamente la più gettonata è l’Inulta viscosa ma solo in attesa della prossima. Il nostro mondo è pieno di ciarlatani che per un po’ di notorietà o semplicemente per cialtroneria, non lesinano i loro consigli sbagliati con il risultato di far morire un sacco di alveari, non solo i loro…
Vediamola più da vicino: Il suo nome scientifico è Varroa destructor, meglio conosciuta dagli apicoltori con il solo nome di Varroa, un acaro che in pochi anni, ha modificato profondamente il modo di fare apicoltura, un cambiamento che è tutt’ora in atto. Ha accelerato, condensandola in pochi anni, la lenta tendenza a trasferire, in arnie a favo mobile, i vecchi bugni rustici. Le stesse arnie Dadant Blatt hanno subito delle profonde trasformazioni. Ad esempio il fondo diagnostico detto impropriamente anti-varroa, ormai universalmente riconosciuto utile, oppure uno scompartimento, inserito nel nido, che permette di eseguire il confinamento della regina per eseguire il trattamento estivo con l’uso dell’acido ossalico. Le trasformazioni più profonde, però, le hanno subite le tecniche apistiche che devono tenere nel dovuto conto l’obiettivo numero uno della moderna apicoltura: ridurre al minimo il numero di Varroa nell’alveare.
La Varroa destructor è un acaro originario del sud-est asiatico. Viveva e vive tuttora tranquillamente nei nidi di un’altra specie di ape, l’Apis cerana, la quale riesce a mantenerla entro i limiti nei quali non determina alcun danno. I motivi della sua espansione che oramai abbraccia pressoché tutto il mondo li dobbiamo ricercare nella movimentazione delle api (nuclei artificiali ma soprattutto regine) a cominciare dagli apicoltori del lontano oriente che hanno, verso gli inizi del secolo scorso trovato più remunerativo allevare sottospecie di api europee, in quanto più produttive e mansuete di quelle locali senza immaginare che ci fosse in agguato un parassita che, una volta cambiato ospite, avrebbe avuto un enorme potere distruttivo. L’Apis cerana, grazie ad una convivenza che perdura da migliaia e migliaia di anni, aveva già messo in atto delle condotte di contenimento contro l’acaro che la nostra ape, non avendo dovuto fin a quel momento dovuto contrastarla, non aveva mai “pensato” di realizzare.
In Italia i primi focolai sono stati diagnosticati nel 1981, in Friuli Venezia Giulia e nel Lazio, mentre oggi la sua diffusione è così capillare che può essere affermato che non esiste praticamente più nessun alveare indenne.
La diagnosi non serve più a sapere se c’è della Varroa negli alveari ma quanta ce n’è e quindi quando è giunto il momento di effettuare il trattamento. Solo difficilmente, osservando le api, è possibile valutarne la quantità presente sia perché è poco più grande di un millimetro, sia perché sa mimetizzarsi ad arte tra i tergiti dell’addome dell’ape.
La Varroa vive sia a spese dell’ape adulta che della covata e il suo ciclo biologico può essere riassunto in questo modo: poco prima dell’opercolatura, una varroa feconda (la madre) entra nella celletta di covata di preferenza quella maschile, ma non esclusivamente come nell’Apis cerana, e depone delle uova dalle quali si svilupperanno delle Varroe femmine ed un maschio che, dopo l’accoppiamento, muore. Le varroe feconde fuoriescono dalla celletta, quando l’ape oramai adulta fora l’opercolo. Dopodiché vivono per alcuni giorni a spese dell’adulto, nutrendosi di corpi grassi (www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.1818371116), una sostanza di riserva situata nell’addome. Poi si calano di nuovo in una celletta di covata per continuare il loro ciclo biologico. Ogni Varroa può effettuare 5 cicli di sviluppo e dalle cellette, dopo la moltiplicazione fuoriescono, oltre alla madre, poco più di una Varroa (1,2-1.3), se si è moltiplicata a spese di una pupa di operaia e poco più di due (2,3-2,4) se lo ha fatto in una celletta da fuco. Il potenziale di crescita di una popolazione di Varroa è eccezionale tanto che qualche decina presente alla fine dell’inverno può dare origine a fine agosto a migliaia di acari che, se non si interviene precocemente, portano a sicura morte la colonia.
I danni maggiori li provoca alla covata in quanto dalle pupe parassitate sfarfallano operaie e fuchi poco vitali e malformi che riducono il potenziale produttivo della famiglia; inoltre le punture che provoca con il suo apparato boccale sulla loro cuticola facilitano la diffusione di malattie batteriche e virali, di cui l’acaro funge da vettore. Un alveare non curato giunge, nella maggioranza dei casi, a morte nel giro di un anno, massimo due.
Debellare questo vero e proprio flagello dell’apicoltura è impossibile, mentre si è dimostrato fattibile, imparando a conoscerla, conviverci.
Il miglior prodotto che puoi utilizzare nella lotta alla varroa è quello che si avvicina di più ad alcune regole di base:
Per gli ovvi motivi di salute pubblica, i principi attivi antivarroa non devono mai lasciare residui nei prodotti dell’alveare. Inoltre il miele ha una immagine di naturalità e purezza che deve essere preservata a tutti i costi, pena il crollo dei consumi con i danni immaginabili per il settore. Per le altre regole non sempre si riesce a raggiungere l’optimum e, quindi, sarà la valutazione dei loro pregi e difetti a farti decidere se utilizzare l’uno oppure l’altro.
La Varroa è un acaro e l’ape un insetto, quindi sono unite da un legame di parentela abbastanza stretto, e ciò che è tossico per l’una molto spesso lo è anche per l’altra. L’efficacia verso la prima e l’innocuità per la seconda è il più delle volte una questione di differenza di dimensioni e, allora, devi stare molto attento alle dosi. Abbondare vorrebbe dire aumentare il rischio di compromettere la vitalità delle stesse api. Diminuire la dose, al contrario, comporterebbe una riduzione dell’efficacia acaricida. Entrambi potrebbero, poi, agevolare la formazione di ceppi di Varroa resistenti ai principi attivi usati.
Chi li utilizza deve poterlo fare senza rischi e questo spesso è sottovalutato perché stiamo parlando, comunque, di molecole con una certa potenzialità tossica anche per l’uomo. Intanto devi scegliere i prodotti autorizzati dal Ministero della salute, perché studiati appositamente per l’uso in apicoltura. Durante la loro somministrazione è comunque importante che ti munisca, durante la manipolazione, degli appositi mezzi tecnici per eliminare ogni rischio (maschere anti gas - per gli evaporanti, guanti, occhiali, ecc.).
Per diminuire il numero di Varroa potresti attuare, in primavera, una sorta di intervento biologico che consiste nello sfruttare la sua preferenza a prolificare nella covata maschile. Devi stimolare la costruzione di favi con un abbondante numero di celle maschili. Lo puoi fare introducendo nell’alveare, ad esempio, un telaino senza foglio cereo, o dei favi da melario. La regina vi deporrà solo uova maschili e, dopo l’opercolatura, eliminerai i favi e, quindi, anche molta varroa. Ma questi, ed altri metodi biomeccanici da soli non sono sufficienti per controllare l’infestazione che può essere mantenuta entro limiti sopportabili solo facendo ricorso alla chimica, utilizzando principi attivi di sintesi o di origine naturale.
Tutti coloro che praticano l’apicoltura biologica, per quanto riguarda le cure delle malattie delle api devono conformarsi a quanto previsto dal regolamento 848/2018 in particolare all’allegato II parte 2, articolo 1.9.6.3. commi c, d, e, f. in cui, ad esempio, è ammessa la pratica della soppressione della covata maschile. Il consiglio è però di non farlo per alcuni motivi:
La legislazione sul bio dice anche che i medicinali veterinari possono essere utilizzati in apicoltura biologica se la loro corrispondente utilizzazione è autorizzata nello Stato membro. Quindi, ad esempio, nella lotta alla Varroa non è possibile usare l’acido lattico perché non registrato.
Poi elenca quali principi attivi adoperare nel contenimento della Varroa, questi sono: l'acido formico, l'acido lattico (con le limitazioni dette in precedenza) e l'acido ossalico nonché mentolo, timolo, eucaliptolo o canfora.
Qualora, durante un trattamento somministri dei prodotti allopatici ottenuti per sintesi chimica, le colonie trattate devono essere isolate in apposito apiario e la cera deve essere completamente sostituita con altra cera proveniente da apicoltura biologica. Successivamente le dovrai sottoporre al periodo di conversione di un anno.
Nonostante la buona efficacia dei principi attivi utilizzati contro la varroa, che non di rado supera il 90%, è necessario eseguire due trattamenti. Uno in estate ed un secondo verso fine autunno. Ciò dimostra una volta di più la incredibile velocità di moltiplicazione di questo parassita. Ci dice anche che tutti i trattamenti con prodotti non provati scientificamente, come quelli consigliati da apicoltori o scienziati improvvisati non possono funzionare. Utilizzare un prodotto che ha una efficacia inferiore al 70% equivale a non eseguire il trattamento. Già capire questo e prenderne atto aumenterebbe la probabilità di salvare i propri alveari.
Quindi il primo trattamento va fatto a metà estate. Non c’è apicoltore, amatoriale o professionista, che non viva con grande preoccupazione il sopraggiungere di agosto, mese nel quale si deve concentrare il maggiore sforzo nella lotta alla varroa ma anche quello in cui bisognerebbe smielare l’ultimo miele. Ma allora, per eseguire il primo trattamento sarebbe meglio aspettare settembre, ovvero quando ormai sei certo che le api non depositano più miele nel melario, oppure togliere i melari e trattare anticipatamente? Sembra questo il grande dilemma dell’apicoltura al quale, in realtà vi è una sola risposta: i primi giorni di Agosto sono il miglior periodo per intervenire contro la Varroa, anche se la stagione produttiva non fosse del tutto terminata. Intanto perché posticipando il numero degli acari presenti nell’alveare potrebbe essere eccessivo e portarlo, in poche settimane, a sicura morte. Mentre rispettando di tempi dai la possibilità alle api di allevare molto presto della nuova covata, sicuramente sana, dalla quale sfarfalleranno operaie invernali in gran forma, pronte a passare i rigori dell’inverno.
In estate per contenere la Varroa se sei un apicoltore biologico hai poche opzioni: se non intendi eseguire alcuna pratica associata, la scelta è su prodotti a base di acido formico o di oli essenziali (timolo, eucaliptolo, mentolo e/o canfora). Per il primo ci sono dei prodotti già pronti per l’uso (MAQS o Formic Pro) oppure è possibile adoperarlo con degli erogatori che ne controllano l’evaporazione tipo Aspronovar Form o dei semplici panni spugna. In questo caso devi acquistare il prodotto sfuso ma registrato il cui nome è Apifor. L’acido formico il più delle volte funziona bene, magari non proprio con una efficacia elevatissima. Però ci sono degli anni in cui la sua efficacia non è sufficiente. Spesso per motivi climatici o per una infestazione già troppo alta.
Stessa cosa accade per gli oli essenziali. Di solito i prodotti autorizzati utilizzano esclusivamente il timolo (Apiguard e Thymovar). Tutti e quattro assieme li ritroviamo esclusivamente nell’Api Life Var. Dal punto di vista dell’efficacia sembrano esservi delle similitudini con l’acido formico. In più tendono a lasciare residui nella cera (seppure di molecole non paragonabili a quelle di sintesi chimica).
In estate è certamente più efficace controllare la Varroa attraverso il confinamento della regina in una gabbietta o in parte dei favi (poi da togliere prima del trattamento) per un periodo sufficiente ad eseguire la somministrazione di prodotti a base di acido ossalico. Ovvero 24 giorni se c’è covata maschile o 21 se c’è solo quella femminile. Siccome l’abbinamento acido ossalico e confinamento della regina è quello che dà i risultati migliori in fatto di efficacia acaricida, ti consiglio vivamente di imparare questa pratica apistica.
È la più efficace perché l’acido ossalico funziona esclusivamente sulle varroe che stazionano sulle api adulte (varroe foretiche) e in questo caso può raggiungere e superare il 90% di efficacia. Ancora più efficace sarebbe abbinare il trattamento mediante acido ossalico con l’asportazione della covata. Questo perché l’80% di tutta la varroa di un alveare è nella covata e togliendola se ne elimina l’80%, già di per se un trattamento efficace. Il successivo trattamento con l'acaricida ucciderà la quasi totalità del restante 20%. Ovviamente togliere tutta la covata ad un alveare intorno ai primi di agosto (periodo nel quale normalmente si mette in pratica la tecnica descritta) potrebbe essere troppo per una colonia. Per cui la devi fare esclusivamente se l’alveare è molto forte (quindi non nel caso di siccità prolungata). Il regolamento bio permette la nutrizione delle colonie nel caso siano deboli e la stagione non concede un grande afflusso nettarifero per cui è possibile alimentarle con dello sciroppo 1:1 che le aiuterà anche nella costruzione di nuovi favi dove la regina inizierà la deposizione.
Le modalità di somministrazione dell’acido ossalico sono: gocciolato tra i favi (Apibioxal in polvere o con glicerolo, soluzione già preparata, Oxuvar, Varromed e Oxybee), sublimato (Apibioxal in polvere) e spruzzato sulle api (Oxuvar). Il consiglio è di darlo gocciolato e valutare, dalla caduta degli acari nel fondo diagnostico se effettuare una seconda somministrazione. In questo caso con la modalità sublimato o spruzzato molto più tollerati dalle api.
Verso la fine dell’autunno, quando nella colonia non c’è più covata (devi esserne certo per cui ti consiglio di eseguire una ispezione) devi fare un secondo trattamento, sempre con prodotti a base di acido ossalico somministrato con le metodiche già descritte in precedenza. Se durante l’ispezione noti che la regina continua a covare, allora dovrai intervenire inserendola in un’apposita gabbia per il blocco invernale (per il tempo necessario) oppure asportando i favi dove la covata è presente.
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