Buongiorno carissime apicultrici e cari apicultori. Oggi vorrei parlarvi della nutrizione delle api: come si nutrono le api nell'ambiente, qual è il loro cibo e come questi influenzi la loro salute. Che mangiare bene sia salutare è dire un’ovvietà. Vedremo che per le api questo è ancora più vero in quanto il loro sistema immunitario è legato a doppio filo con la raccolta del polline.
Le api da miele sono un ottimo impollinatore e molti fiori si affidano a lei per l’accoppiamento in quanto hanno due caratteristiche che gli altri insetti pronubi non possiedono: sono tante e possono essere attive anche in inverno. All’interno di un alveare vivono dalle 10.000 alle 40.000 operaie capaci di visitare una cosa come 3 milioni di fiori al giorno. Mentre gli insetti pronubi diversi dalle api da miele sono solitari o vivono in piccole società annuali che in inverno non sono attive. Le api da miele vivono in società perenni e questo permette loro di impollinare tutti i fiori invernali. Basta che la temperatura esterna si alzi sopra i 10/15 °C che loro escono numerose per favorire la fecondazione di fiori di ruchetta violacea, di veronica, mandorlo, borragine, asfodelo e via dicendo…
Quindi queste peculiarità (abbondanza di individui in un periodo nel quale altri pronubi sono inattivi) le devono al fatto che hanno instaurato una società perenne. Ma di società di insetti perenni ce ne sono pochissime (oltre alle api da miele, formiche, termiti e poche altre) perché l’evoluzione della specie trova sul suo cammino uno scoglio difficile da superare: dove trovare l’energia sufficiente a far sopravvivere così tanti individui quando l’ambiente non è in grado di sfamarli? Le api da miele hanno avuto il successo evolutivo che tutti possiamo ammirare grazie al fatto che hanno imparato a stoccare sufficiente cibo nel loro nido. Fanno un po’ come noi, siamo coscienti del fatto che avremo fame e abbiamo imparato a fare delle scorte con l’uso della cottura e anche del freddo.
Immagino che la storia evolutiva delle api su questo aspetto sia stato davvero complicata perché maneggia degli ingredienti che si degradano molto velocemente. Il nettare non è altro che acqua e zucchero ad una concentrazione che può fermentare a velocità supersonica. La composizione del nettare non è molto diversa dal mosto d’uva (ed infatti dal miele si può ricavare l’idromele, la bevanda alcolica più antica al mondo) mosto d’uva che sappiamo iniziare a fermentare poche ore dopo la pigiatura degli acini. Per preparare il loro cibo di scorta, che noi chiamiamo miele, l’evoluzione le ha dotate di speciali enzimi capaci di scindere gli zuccheri e di un perfetto meccanismo di ventilazione atto a far evaporare litri e litri di acqua nel giro di poche ore. Questo trasforma un liquido facilmente fermentescibile in un altro, il miele, all’interno del quale nessun microrganismo è in grado di sopravvivere proprio grazie all’alta concentrazione di zuccheri. Addirittura sa scindere, sempre grazie ad un particolare enzima - la glucossidasi - il glucosio in acido gluconico (acidificando il miele in formazione e aumentando così la sua conservabilità) e acqua ossigenata. Quest’ultima è capace di rallentare l’azione di potenziali lieviti nel periodo in cui il nettare non è ancora miele (ovvero non è ancora maturo e quindi gli zuccheri non sufficientemente concentrati) il che potrebbe farlo fermentare nei favi, uccidendole.
Ma cos’è il miele? Un cibo costituito essenzialmente da zuccheri: in esso troviamo il 79% di glucidi, circa il 17% di acqua e un 4% di altro, di cui meno dell’1% è formato da proteine. Certo un 4% fantastico visto che dona al miele le caratteristiche di colore, gusto e salutari che ce lo fanno preferire ad altri dolcificanti.
Quando un’ape esce per andare a raccogliere il nettare, visita una media di 150 fiori prima di tornare nel proprio alveare e cedere il bottino (composto da 40mg di nettare) ad una sorella. Una mezz’ora di riposo e via a ripartire. Lo scambio di cibo avviene attraverso la trofallassi (di cui abbiamo già ampiamente parlato in altri episodi) grazie alla quale avviene uno scambio di alimento e feromoni. Questa goccia di nettare passa di bocca in bocca centinaia e forse migliaia di volte e così facendo si disidrata e dall’altra si arricchisce di enzimi. Si disidrata perché all’esterno dell’alveare vi sono delle api che ventilano introducendo aria nell’arnia. Immagina un fon sempre in azione. Un flusso d’aria che deumidifica l’ambiente e così anche il miele. Continua a deumidificarsi anche quando, diventa così viscoso che non riescono più a scambiarselo in quanto non può passare dalla ligula (ovvero la bocca) delle api che è una sorta di cannuccia. A questo punto, allora, lo depositano nelle cellette del favo. Il nettare in arrivo, quindi, è rapidamente distribuito all’interno dell’alveare tra tutte le api e tutte partecipano alla trasformazione in miele. Le cose cambiano diametralmente nella dinamica di trasferimento dell’altro cibo delle api: il polline. Esso è un concentrato di proteine, lipidi (ovvero i grassi), vitamine, sali minerali, e tutto ciò che è necessario ad assicurare alle api il meglio per il loro ciclo vitale.
Se la trasformazione del nettare in miele è un’azione corale di tutto l’alveare, le cose sembrano andare diversamente nella lavorazione del polline. Ma esiste una specializzazione nella raccolta? Possiamo dire di si, una certa specializzazione esiste anche se questo dipende da molti fattori (tipo di fiore, necessità della colonia, momento nella stagione). Quando un’ape bottinatrice esce per la raccolta del polline, si dirige in quelli più vicini all’alveare. Il maggiore raccolto se lo assicurano all’interno di 800 metri di raggio. Entrando all’interno del calice dei fiori, i peli che ha sul corpo si riempiono di polline. Mentre vola da un fiore all’altro li pettina con le spazzole che ha nelle zampe. Con quelle del primo paio raccoglie il polline situato nella testa e lo passa al secondo paio, con le quali pulisce il torace. Il terzo paio di zampe riceve il polline dal secondo e contemporaneamente raccoglie quello che è situato sull’addome e lo convoglia nell’articolazione tra tibia e tarso che funge da pressa. A questo punto rigurgita un po’ di nettare raccolto e lo impasta con la polvere di polline costruendo la corbicola intorno alla cestella che non è altro che un lungo pelo presente nella tibia che sorregge la pallottolina fino all’interno dell’alveare. Qui si dirige verso una cella nella quale scaricarlo tra quelle libere, oppure occupate in minima parte, che si trovano tra il miele e la covata. Le celle destinate al polline, al massimo sono riempite per un terzo della loro capienza. Quindi si gira e inserisce le zampe posteriori nella cella mentre col secondo paio se le sfila di dosso. A questo punto si gira di nuovo e vi introduce la testa con la quale pressa il contenuto.
Perché lo mettono vicino alla covata? Perché la covata è avida di polline. Come si sa, i piccoli di ogni specie per crescere hanno bisogno di tante, tantissime proteine e di piccoli in un alveare ce ne possono essere ben 15 mila!
Il polline fresco è il miglior cibo lipo-proteico per le api, quello che per unità di peso apporta più nutrienti, quindi il cibo per lei perfetto. Ma il polline è come il nettare, non è disponibile tutto l’anno e quindi va stoccato e poi trasformato perché non si deteriori. Nel caso del nettare, lo trasformano in miele, e per il polline? La cosa è molto più complessa perché non è possibile concentrarlo. Nel periodo di grande sviluppo della covata i problemi sono pochi perché tanto polline entra e quasi altrettanto viene consumato. A quello in eccesso le api aggiungono un velo protettivo di miele. Lo sigillano con un antimicrobico e lo isolano dall’aria. Un attento apicoltore lo sa riconoscere: il polline appena stoccato è opaco, quello col miele lucido. Ma questo non basta: per proteggerlo ancora meglio dalle azioni di potenziali microbi patogeni, ne favorisce la fermentazione. Ecco che il polline diventa “il pane delle api” o “bee-bread” in inglese. Appena le api lo mettono nelle cellette, parte la fermentazione malo/lattica che lo acidifica rendendolo più conservabile.
In molti hanno pensato che le api assumessero il polline solo dopo la fermentazione, ma poi si è scoperto che non è così: anche in questo caso le api si comportano un po’ come noi. Certamente dal punto di vista nutrizionale una verza è migliore dei crauti ma i crauti si mantengono molto a lungo e quindi li si può mangiare quando le verze fresche, per motivi climatici non sono più disponibili.
Tuttavia anche questo non basta perché le api da miele che vivono nei climi temperati con inverni rigidi devono poter sopravvivere alcuni mesi senza apporti esterni di polline e quello stoccato potrebbe deteriorarsi e, soprattutto, può fare così freddo che difficilmente riuscirebbero a metabolizzarlo. Allora le api, nel lungo cammino evolutivo, hanno imparato a stoccare il surplus proteico nel loro corpo. Come?
Tutte le femmine delle specie che producono uova sono capaci di produrre la vitellogenina che è il precursore del tuorlo dell’uovo. È una glico-lipo-proteina che quindi possiede tutti i nutrienti essenziali. Ma le operaie sono sterili quindi non producono uova (se non in casi limite) e invece di sprecare questa meravigliosa molecola, sono riuscite ad utilizzarla come riserva. Anzi molto di più: entra tra i regolatori dei ritmi della colonia ed è la componente fondamentale del loro sistema immunitario. Il tessuto di riserva della vitellogenina si trova nello strato superficiale dell’addome delle api e si chiama “corpi grassi”.
Ed ecco che per poter differire nel tempo l’uso del polline le api lo stoccano, lo conservano sotto miele, lo fanno fermentare e, infine, lo immagazzinano nei loro corpi grassi come vitellogenina.
Le api sono insetti e quindi molto distanti da noi dal punto di vista filogenetico eppure, in alcuni comportamenti, ci assomigliano anzi forse è il contrario, noi assomigliamo a loro. Quando due specie raggiungono comportamenti simili pur avendo percorso strade evolutive assolutamente diverse si parla di evoluzione convergente. Uno di questi comportamenti è l’allattamento dei piccoli. Le api, così come i mammiferi, trasformano gli alimenti in un secreto ghiandolare con il quale alimentano la covata.
Nel caso specifico il latte delle api si chiama pappa reale o gelatina reale. È un liquido biancastro prodotto dalle ghiandole mandibolari e ipofaringee quindi si trovano dalle parti della bocca delle api nutrici. È di sapore acido ricco di ogni elemento essenziale per la crescita. Tutte le larve dei vari componenti dell’alveare (operaie, regine e fuchi) ricevono pappa reale per i primi due giorni di vita. All’inizio un cibo a basso contenuto zuccherino e ricco in proteine. Poi la dieta per le larve di operaie e fuchi vira ad una pappa nella quale sempre più diventa preponderante la presenza di zuccheri e polline, mentre la larva della regina sarà nutrita sempre e solo dalla pappa reale. La pappa reale è il cibo migliore al mondo per la regina e ne mangerà per tutta la vita. Ma quando è ancora larva ne sarà alimentata così generosamente che galleggerà in un lago di gelatina bianca e cremosa.
La pappa reale per le api ha del prodigioso. È l’esempio più lampante di come funziona l’epigenetica che si ha quando individui con lo stesso genotipo (ovvero con lo stesso DNA) per motivi derivanti dall’ambiente sviluppano un’espressione fenotipica differente. Regina e api operaie che esteriormente sono molto diverse tanto che chi non lo sa le può scambiarle per insetti di specie distinte, derivano invece esattamente dallo stesso tipo di uovo ovvero un uovo fecondato, stesso identico.
Quindi la pappa reale è di fondamentale importanza per la colonia di api. L’alveare comincia ad allevare covata ben prima che possa trovare abbondanti fioriture e raccogliere il polline. Quindi per produrla, le nutrici attingono alle riserve di vitellogenina che hanno cominciato ad accumulare verso la fine dell’estate. Poi arriva la primavera e di polline se ne trova a bizzeffe. Più ne trova e più può allevare covata. Inizialmente dovrà rimpiazzare con api giovani quelle invernali oramai troppo vecchie e al termine della loro vita. In questo momento la colonia non cresce. Ma ecco che in pochi giorni tutto cambia, grazie all’incredibile capacità di deporre uova della regina, fino a 2.000 al giorno! Ovvero quasi il suo peso corporeo in uova! Ciò richiede una quantità e qualità di nutrimento prodigiosa che solo la pappa reale può darle! Ad un certo punto, iniziano a nascere più api di quelle che muoiono e la colonia si accresce così tanto che si appresta a sciamare. La scintilla che fa partire il tutto si ha quando la maggior parte dei favi del nido sono pieni di covata e cominciano a scarseggiare le api giovani da alimentare con la pappa reale. Le operaie non riescono a liberarsi del contenuto delle loro ghiandole mandibolari e ipofaringee e si mettono a costruire delle celle reali dove la regina deporrà delle uova (del tutto inconsapevole del fatto che evolveranno in nuove regine). Ed ecco che le nutrici potranno scaricarvi la pappa reale.
Quindi le api possono stoccare le proteine in parte anche nella pappa reale. Anzi, possiamo dire che nella prima parte della stagione, quando non è necessario che la vita media delle api sia molto lunga, le proteine sono preferibilmente trasformate in pappa reale. Mentre nella seconda, quando la vita media deve aumentare perché l’inverno si avvicina, le proteine sono trasformate in vitellogenina stivate nei loro corpi grassi. La secrezione di pappa reale per le api è così logorante che quando ne devono produrre molta la loro aspettativa di vita decresce. Sappiamo che le api estive vivono 40 giorni eppure tutti gli apicoltori hanno potuto sperimentare che quando in una colonia viene a mancare la regina, magari perché inaspettatamente muore, la colonia vive molto più a lungo di 40 giorni, fino anche a 3 mesi. Quindi le api invernali vivono più a lungo sia perché i loro corpi grassi sono colmi di vitellogenina sia perché, in assenza di covata, le api si logorano molto meno.
Spesso mi sento fare la domanda se le api in inverno vanno in letargo. No, non ci vanno. Sono sempre pronte ad uscire quando la temperatura sale per alcune ore sopra i 10 gradi. Certo, abbassano notevolmente il loro metabolismo. Interrompono la covata anche per alcuni mesi, per cui si abbassano notevolmente i consumi sia di glucidi (miele) che di proteine (vitellogenina). Pensa, l’alveare in piena attività può consumare decine di chili di miele al mese, in novembre e dicembre, al contrario, anche solo un chilo. Infatti le api non rischiano di morire di fame in inverno ma in primavera, se questa è troppo piovosa, quando cominciano ad allevare abbondante covata. Le api adulte di per se sono efficientissime e molto sobrie. Quel poco di energia che prendono dal miele la utilizzano nel riscaldarsi riunendosi in un glomere più o meno stretto a seconda della temperatura esterna e facendo vibrare i loro muscoli. Se in estate è necessario portare la temperatura nel nido di covata a circa 35 gradi, in assenza di essa la fanno scendere a 15/18.
Ah, quasi dimenticavo una cosa molto importante. Sai di cosa si nutre la varroa, l’acaro parassita delle api da miele? Di emolinfa dirai. Bene pensavo così anche io per un mucchio di tempo dopo di che ho letto una ricerca che ha dimostrato che così non è. E cosa mangia la Varroa? La vitellogenina, mica scema! Ma questo ci deve far riflettere su come dobbiamo intendere i trattamenti.
Per capirlo dobbiamo rispondere a questa domanda: Quando nascono le prime api invernali che vivono a lungo grazie alla vitellogenina? Ad agosto. Quando fare i trattamenti, allora? Non dopo i primi di Agosto. Ma fai attenzione perché potrebbe non essere sufficiente. Infatti se la colonia è molto infestata, ed esce dal trattamento piuttosto malconcia non riesce a raccogliere a sufficienza e covare abbastanza per rimpiazzare le api morte.
Tra i prodotti delle api vanno annoverati, oltre al miele, al polline e alla pappa reale, anche la Propoli e la cera. La prima non è un alimento ma una sostanza attiva contro numerosi microrganismi che l’ape raccoglie per lo più sulle gemme di alcune essenze vegetali al fine di disinfettare il nido, di riempire le fessure come fosse uno stucco e ridurre l’entrata di volo del nido troppo grande. La cera, invece non è raccolta ma è il frutto della secrezione di alcune ghiandole. Nutrendosi sempre di miele e polline, l’ape riesce a trasformarli in cera con la quale costruirà i favi del nido. Anch’essa, quindi, non è un alimento ma un materiale da costruzione. Avremo tempo per parlarne in altri episodi.
Con questo è tutto, ma riprenderemo tra qualche mese l’argomento per capire se e come vanno nutriti gli alveari. L’ape è un animale selvatico e gli animali selvatici non vanno alimentati. Chi alimenterebbe un lupo o un daino? Inoltre i prodotti dell’alveare non devono contenere elementi che non derivino direttamente dalla raccolta di nettare e melata. È la legge che lo dice espressamente. Però è anche un animale allevabile e quindi può capitare che per qualche motivo rimanga con poche scorte e sia necessario alimentarle. Vedremo quindi come è possibile (se è possibile) convivere con questa contraddizione.
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